39 utenti on line |
|
In Italia
Ma cosa si intende con “famiglia” oggi in Italia? Sempre secondo l’indagine Censis, nel periodo 2000-2010 sono diminuite le coppie coniugate con figli (-739mila), mentre sono aumentate le coppie non sposate con figli (+274mila) e le famiglie con un solo genitore (+345mila). Nel periodo 1998-2009 sono aumentate le unioni libere (+541mila) che, inclusi i figli, coinvolgono oltre 2,5 milioni di persone. E sono complessivamente 5,9 milioni gli italiani che hanno sperimentato nella loro vita una forma di convivenza libera. Le diverse modalità concrete di “essere famiglia” rispondono al bisogno crescente di avere una relazionalità significativa. Più del 90% degli italiani si dichiara soddisfatto delle relazioni familiari, anche all’interno delle cosiddette famiglie di fatto, che, però, per lo Stato italiano ancora “non esistono”. Vi sono persone che condividono la vita, la casa, i figli, che si scambiano non solo affetti ma anche assistenza spirituale e materiale… ma che dal nostro Stato vengono considerati alla stregua di estranei (al massimo di coinquilini). Il nostro è un Paese a regime di welfare mediterraneo in cui l’accesso ai diritti di cittadinanza è mediato dall’appartenenza alla famiglia, quella legalmente riconosciuta. Anche se ci si sposa meno (tra il 2000 e il 2010 i matrimoni sono diminuiti del 23,7%), all'unione matrimoniale è ancora riconosciuto un valore importante: il 76% degli italiani è convinto che sia una regola da rispettare e il 54% ritiene che garantisca maggiore solidità alla coppia. Nell’incontro tenutosi a Mantova il 17 maggio 2012 “Famiglie anche noi. Unioni di fatto, non ancora di diritto”, organizzato da Arcigay Mantova con Articolo3 Osservatorio sulle discriminazioni, in occasione della Giornata mondiale contro l’omofobia, il sociologo Luca Trappolin ha analizzato questa propensione degli italiani verso la “famiglia tradizionale” partendo dalla considerazione che 1 italiano su 5 vive in un contesto di città con meno di 100.000 abitanti, un contesto, quindi, semi-urbanizzato in cui la famiglia “tiene” perché non si è mai sperimentato qualcosa di diverso come invece avviene nelle grandi città europee, dove già ci si scambia affetto e assistenza in gruppi allargati, dove l’affettività non è vista come una prerogativa esclusiva della coppia. In Italia, secondo l’acuta analisi di Trappolin, prevale ancora quel che il sociologo Banfield definisce “familismo amorale”, una concezione estremizzata dei legami familiari che va a danno della capacità di associarsi e dell'interesse collettivo. Un sistema in cui l'individuo persegue solo l'interesse della propria famiglia nucleare, e mai quello della comunità che richiede cooperazione tra non consanguinei. Dagli altri paesi europei siamo visti come un paese di chiaro stampo pre-moderno. Un paese in cui le scelte sessuali di una coppia (mere “questioni di letto” e, come tali, attinenti alla sfera privata dell’individuo) costituiscono il discrimine tra il poter assurgere al rango di “famiglia” e l’aver per sempre preclusa tale aspirazione. Ma perché negare una pari opportunità a quelle coppie che hanno come unico carattere distintivo una diversa sessualità? Perché nel nostro Paese, nonostante la Convenzione Europea sui diritti dell’Uomo, il Trattato di Lisbona, le diverse risoluzioni del Parlamento Europeo la coppia di fatto non ha ancora una regolamentazione organica all’interno del nostro ordinamento? Non si vede neppure quale interesse pubblico potrebbe essere addotto per giustificare la disparità di trattamento, se non quello consistente nell’adesione a pratiche discriminatorie tramandate da una tradizione intollerante, violenta e preliberale. La legislazione italiana, quando interviene, non sta al passo con i mutamenti sociali, arriva in ritardo a riconoscere e regolamentare situazioni che già esistono da tempo, come la sentenza della Corte di Cassazione n. 4184 del 15 marzo 2012 (riportata dal Corriere nel n. 105 a pag. 15) che stabilisce che le coppie gay “conviventi in una stabile relazione di fatto, se non possono far valere il diritto a contrarre matrimonio né il diritto alla trascrizione del matrimonio celebrato all’estero”, tuttavia hanno il “diritto alla ‘vita familiare’” e a “vivere liberamente una condizione di coppia”. Tutto ciò, proseguono i giudici, con “il diritto”, in presenza di “specifiche situazioni” (che non vengono dettagliate), di un “trattamento omogeneo a quello assicurato dalla legge alla coppia coniugata”. Infatti, aggiunge la Cassazione, rifacendosi all’art.12 della Convenzione Europea dei diritti dell’Uomo, è stata superata “la concezione secondo cui la diversità di sesso dei nubendi è presupposto indispensabile, per così dire naturalistico della stessa esistenza del matrimonio”. E di “vita familiare” parlava anche, e per la prima volta, la sentenza della Corte di Strasburgo del 24 giugno 2010, alla quale si rifà la Cassazione, riconoscendo il diritto delle coppie omosessuali ad una “vita familiare” al pari delle coppie etero. Ma se si può senz’altro essere contenti di questa recente sentenza, del fatto che finalmente l’intrascrivibilità delle unioni omosessuali dipenda non più dalla loro “inesistenza” e neppure dalla loro “invalidità”, fa però riflettere il fatto che purtroppo le stesse vengano ancora considerate inidonee alla produzione di qualsivoglia effetto giuridico. Spesso noi italiani consideriamo come grandi vittorie quelle che in realtà sono semplici affermazioni di diritti civili, già riconosciuti da tempo nel resto dell’Europa. Un paradosso se pensiamo che l’Italia, fra i Paesi cofondatori dell’UE, è stato il primo ad abolire, nel 1889 con l’introduzione del Codice Penale Zanardelli, il reato di omosessualità. Lo stesso Ministro Zanardelli dichiarava : “…occorre che il legislatore non invada il campo della morale”, affermazione che oggi, a distanza di oltre cento anni, può apparire addirittura rivoluzionaria, se confrontata con lo scenario politico dei nostri giorni in cui i pilastri dello Stato di diritto, seppur scolpiti nella nostra Costituzione del 1948, tremano quotidianamente nella prassi della vita politica e sociale italiana. E la via giudiziaria, il riconoscimento dei propri elementari diritti attraverso le sentenze dei diversi Tribunali italiani ed europei, dovrebbe essere l’ultima strada percorribile, dovrebbe essere una forma di tutela residuale. L’impegno per il cambiamento, per la rinascita di un’epoca di diritti, deve partire dalla società civile, da tutti noi che costituiamo la stessa ragione d’essere della convivenza politicamente organizzata. Elena Benaglia
|
|
Copyright © 2005 Il Corriere di Tunisi - Ideazione e realizzazione Delfino Maria Rosso - Powered by Fullxml |