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  Cultura
 669 - IL MONDO MAGICO DI ANTONIO LIGABUE

 

Una grande mostra a Milano celebra il pittore padano

Quando si parla di Antonio Ligabue, ci si scontra con l’ingombrante stereotipo del pittore maledetto. La sua vicenda artistica è inevitabilmente oscurata dalla sua vita segnata da tappe dolorose e caratterizzata da separazioni, da diversità incolmabili.

Ciò che appunto possiamo definire follia. A noi non rimane che calarci nella messa in scena che il pittore ci propone con la lucidità dello strumento della pittura, l’unico a lui concesso. La condizione di artista marginale, di ”folle” conclamato, ha  spesso messo in secondo piano la sua arte, che vive invece di luce propria, non solo come momento di riscatto sociale, ma come testimonianza delle espressioni artistiche del periodo che va dagli anni Trenta ai Sessanta del Novecento.

La grande mostra antologica che Milano gli tributa a Palazzo Reale (inaugurata il 20 giugno e che durerà fino al 26 ottobre), ha lo scopo di riportare la sua opera al centro dell’attenzione. Vittorio Sgarbi  presentando l’esposizione ha sottolineato che “Ligabue è un vero primitivo, amato dal pubblico e rifiutato da quei  critici con la puzza sotto il naso”.

Da oggi la parola passa finalmente alle opere. Duecentocinquanta dipinti, un quarto dell’intera produzione dell’artista, trenta disegni e quindici sculture in bronzo. I soggetti ricorrenti sono quelli tipici del suo immaginario figurativo, ripetuti

fino all’ossessione. Gli animali rappresentati sono quelli visti  nei macelli di campagna, sulle locandine dei circhi e nei libri d’avventure. Ma sono gli animali selvaggi, soprattutto tigri, leopardi, leoni che per Ligabue rappresentavano la fuga dalla realtà verso un mondo fantastico e ignoto. Temi naturalistici rappresentati con violenza di segni e di colori in cui si avverte l’influenza di Henri Rousseau, il Doganiere, vissuto tra Ottocento e Novecento. Sono esposte anche scene campestri tra cui due pezzi importanti come Diligenze con castello e Semina con cavalli imbizzarriti. Infine è da ricordare la nutrita serie di autoritratti in cui il pittore, idealmente, si paragona a Van Gogh. Se guardiamo alla biografia di Ligabue (1899-1965), troviamo una rassegna di esperienze vissute in maniera parossistica e che tuttavia fanno parte del vissuto comune.

Figlio di immigrati, ripudiato da una madre che lo aveva in affido, ebbe un’infanzia e un’adolescenza molto difficili in Svizzera dove frequenta classi differenziali e istituti per ragazzi problematici.

A  vent’anni  è  espulso dal suo paese natale e mandato forzatamente a Gualtieri, Reggio Emilia, dove risultava avere la residenza. Qui vive  emarginato dai  suoi compaesani, conducendo un’esistenza solitaria, vaga nei boschi e tra le golene del Po imitando i versi di uccelli e animali, facendo propria la natura di cui è partecipe. Ricoverato più volte in manicomio e in ospizi per mendicanti, a cui si aggiunsero anche due anni e mezzo di paralisi, offre i  suoi quadri  in cambio di generi di sussistenza. L’esclusione e il rifiuto sociale diventano espressione della necessità di tracciare confini oltre i quali annotare la propria negatività e le proprie paure. L’arte come porto sicuro  della  follia, ma  anche  la savana come teatro lontano della violenza.

Concludiamo, citando due aforismi di Alda Merini – una delle voci più significative della poesia italiana contemporanea, che come Ligabue ha vissuto una lunga e dolorosa esperienza manicomiale: “La pistola che ho puntato alla tempia / si chiama Poesia” e ancora “Anche la follia/merita i suoi applausi” .

Parole queste che valgono anche per Ligabue, che nell’arte ha trovato l’unica forma di comunicazione concessa a un “folle”,   un magico “folle” che ha creato intorno a sé  un’aura  di  leggenda  con  la  sua  straordinaria personalità.

 

Clelia  Ginetti

 

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