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Dossier
Nel paese, sempre più dominato dall’arroganza di una cricca familiare dei due rami Ben Alì e Trabelsi, diventata sempre più numerosa e avida di danaro al punto di aver instaurato in ogni angolo del territorio nazionale un vero e proprio sistema di racket molto simile alla nostra “piovra”, la gente non ne poteva ormai più da qualche anno. La corruzione, via via sempre più diffusa e sfacciatamente proterva, aveva contaminato anche i più insignificanti ruoli della funzione pubblica. Anche una semplice licenza di vendita ambulante di frutta, negli ultimi tempi, costava spesso un pizzo, una mazzetta da pagare. Alla fine è scoppiata la rivolta. Una rivolta che è stata solo apparentemente improvvisa, anche se certamente è arrivata quasi del tutto inaspettata dal regime. Tutto è cominciato a Sidi Bouzid, lontano duecento chilometri dalla capitale, dove il 17 dicembre un giovane disoccupato al quale la polizia aveva sequestrato la merce e il mezzo sul quale vendeva come ambulante frutta e verdura, si è dato alle fiamme, morendo di lì a pochi giorni. La cosa, solo pochi anni or sono, sarebbe rimasta circoscritta in un ambito periferico e difficilmente avrebbe prodotto effetti che andassero al di la di qualche commento appena sussurrato nei caffè o nella brasserie. E invece no. La rete dei social networks, in particolare Facebook e Twitter, ha dato corpo e sostanza a una forma di condivisione che, se i primi giorni appariva solo una forma di protesta abbastanza trascurabile persino all’occhiutissima e spietata censura, in pochissime settimane è diventata il canale di comunicazione che ha alimentato, più d’ogni altro, la marea montante d’un moto di ribellione. In molti, dopo essersi dati appuntamento nelle strade e nelle piazze, hanno spento il pc e sono passati, dalle parole e “postate” sulle bacheche di Facebook , ai fatti. A questo punto, e solo a questo punto, verso il dieci di gennaio, è scoppiato il pandemonio. Niente gelsomini per le strade, ma solo una parola, un invito che doveva, di lì a pochi giorni, diventare il vero e proprio slogan, la password, di questi moti popolari: “Degage!”. Un invito che il presidente, dopo un non meno patetico che inutile tentativo di raffazzonamento all’ultimo minuto, non ha potuto far altro che accogliere, scappando di notte e in gran segreto, come un ladro, per evitare d’essere buttato fuori a pedate nel sedere dalla sua lussuosa residenza. Ben Alì, per evitare l’ingloriosa fine del topo in trappola ha preferito quello che, evidentemente, per lui era il male minore: la fuga. Adesso a Dubai, dove s’è rifugiato dopo che il suo amico Sarkosy gli ha sbattuto la porta in faccia, non gli resta che meditare sugli errori, grossolani e volgarissimi, che hanno d’un sol colpo invalidato quel che pure di buono era riuscito a fare per un paese che non mostra, almeno per ora, nessuna intenzione di volergliene riconoscere neanche lontanamente il più piccolo merito. Sic transit gloria (et mala pecunia) mundi. Ora ci si chiede se, morto un papa, non ne verrà un altro. Ovverosia se dalla padella della cucina di casa Ben Alì-Trabelsi non si finirà nella brace del barbecue di qualcun altro anche se, a dire il vero, i primi segnali che arrivano dalle stessa strada e dalle stesse piazze della rivolta sembrerebbero indicare una direzione diversa, che punta dritto ad una democrazia vera, non di facciata. Anche il tanto temuto ritorno di Rachid Ghannouchi, considerato forse con un po’ troppa superficialità il leader di Ennahdha, il partito del “rinnovamento” islamico, si è caratterizzato per i toni moderati che ha scelto di usare, lontani anni luce dai suoi antichi proclami nei quali invocava l’avvento d’una repubblica islamica e l’adozione della sha’hria . Ghannouchi, già nel 2006 (Fatima Kabba, « Rached Ghannouchi contesté », Le Maghrébin, n° 2, 11 septembre 2006) sosteneva, in contrapposizione al capo del movimento stesso di Ennahda che esortava una contrapposizione diretta e frontale al regime di ben Alì, la necessità di una linea di “riconciliazione nazionale”. Questo gli costò, all’epoca, una vivace contestazione da parte dei suoi stessi estimatori e sostenitori. Chissà se c’erano anche loro il 30 gennaio ad aspettarlo festanti all’aeroporto di Tunisi, dove stando alle sue prime dichiarazioni, pare che si sia immediatamente pronunciato in favore di una democrazia reale, della libertà di espressione e di coscienza. Sarà così? Lo sapremo solo da come andranno a svilupparsi le cose. Ma non c’è solo Ghannouchi a rappresentare le istanze dell’islàm. E’ difficile immaginare che le organizzazioni che fanno capo al fondamentalismo se ne stiano con le mani in mano. Sarebbe uno sbaglio enorme sottovalutarne il ruolo e la forza. Sono ricche di mezzi finanziari e organizzate sotto ogni punto di vista. E ora che possono introdursi dall’esterno per alimentare singoli e gruppi di sotegno che dall’interno del paese sognavano da anni questo giorno, è difficile che rinuncino ad entrare in azione. Ce la farà il popolo tunisino a resistere a questa prevedibilissima offensiva? La democrazia ha le sue regole e la prima di tutte è salvaguardare la libertà di pensiero e di espressione. Ora che la democrazia ha aperto i giochi è il momento della verità. Una verità che potrebbe far male, molto male alla democrazia stessa. Solo nei mesi e negli anni avvenire scopriremo se il sacrificio di Mohamed Bouazid, il giovane disoccupato che si è dato alle fiamme a Sidi Bouzid, è servito davvero alla causa della libertà e della democrazia del suo paese. Giacomo Fiaschi Tunisi, 31 gennaio 2011
[foto – G. Fiaschi]
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