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  Dossier
 715 - R I F L E S S I O N I - DEMOCRAZIA NEL MAGHREB? LA TUNISIA CI PROVA

 

Breve resoconto di una esperienza tunisina durata poche settimane durante le quali tutto non è stato più come prima

 

Partito come tantissimi italiani prima di Natale per la Tunisia ho vissuto in prima persona il rapidissimo evolversi di una situazione socio-politica praticamente immobile da 23 anni.

Ora ci si interroga proprio sulla rapidità nella quale tutto è avvenuto.

Da architetto mi è venuto naturale paragonare il crollo del Regime di Zine El Abidine Ben Alì all’improvviso cedimento di una struttura portante, crollo tanto più drammatico quanto più la struttura è rigida, quindi in apparenza, solida. Con il «senno di poi» si potrà ora dire che i presupposti invece c’erano e che eravamo ciechi a non accorgercene.

Mi ha colpito, all’arrivo al Porto di La Goulette (viaggio quasi sempre con la mia auto per essere più indipendente)

l’insistenza di un uomo che chiedeva, a tutti quelli che sbarcavano, prima ancora di passare i controlli e la Dogana, qualche spicciolo. Non era affatto un mendicante, era un doganiere in pensione (altrimenti non avrebbe potuto muoversi liberamente in spazi così controllati) e questo fatto invece di infastidirmi, mi avrebbe dovuto far pensare. Se si arriva apertamente a tollerare questo, significa che si è superato un limite: quello della sopravvivenza. Successivamente un altro impiegato (questa volta nel settore privato) mi ha fatto i conti della sua economia: con uno stipendio di 280 Dinari, due figli a scuola, la moglie e la suocera a casa, la sola voce «pane» occupava il 20% delle spese mensili. La dignitosa povertà nella quale vive la gente comune (non equivochiamo con il termine miseria che in Tunisia io non ho visto) stava per avere un tracollo: il costo della vita (biglietto del tram, carburante, energia elettrica e, appunto, il pane) aumentava da tempo senza che aumentassero le paghe o le occasioni di guadagno

Al contrario l’economia della Tunisia non era affatto in sofferenza. La spiegazione me l’ha data un economista tunisino. Che vive a Parigi, Mohamed Haddad: la crescita certificata a livello internazionale del 2,6% su base annua era assorbita quasi esclusivamente da una ristretta cerchia di famiglie che controllavano i Supermercati, i Concessionari, la vendita dell’abbigliamento, del carburante e dei mezzi di comunicazione. Il bello è proprio qui: questi mezzi (cellulari, computer, iPod ecc), sono stati lo strumento principe della rivolta e della rapidità della sua espansione territoriale. Se la dinamica degli avvenimenti è partita dal gesto di disperata protesta di un giovane ventiquattrenne di Sidi Bouzid nel centro del Paese che si è dato fuoco di fronte al Comando di Polizia è altrettanto vero che è stato l’uso di internet a connettere la protesta. Come se questo solitario gesto, evocativo di altre disperazioni e di altre proteste storiche in tutto il mondo, una volta comunicato via rete ha avuto la forza di disinibire l’intera nazione.

Non sono un esperto di questo paese e non voglio dare giudizi sbrigativi o superficiali. Devo confessare tuttavia che durante le mie precedenti frequentazioni tunisine non ho mai avuto sentore di una pressione sociale così forte.

Vuoi per orgoglio vuoi per diffidenza, non ho mai registrato critiche o valutazioni apertamente negative, nemmeno generici commenti. Ciò di cui ci rendeva conto era il fatto che metà della popolazione era in carica allo Stato. Inoltre trovavo stravagante, persino ridicola (beata ingenuità!) la presenza in ogni angolo di strada ma anche in ogni ufficio, magazzino, studio medico, mercato, negozietto o addirittura abitazione, del ritratto del leader. Un’altra cosa che avevo notato era l’appiattimento della stampa su posizioni e notizie esageratamente ottimistiche: tutto andava bene, tutto in crescita e in miglioramento, nessuna opinione non dico critica ma almeno dubbiosa o interrogativa. Si leggeva solo dei progressi del mitizzato « Changement», il processo socio- politico inaugurato da Ben Alì appena dopo il colpo di stato che 23 anni fa l’ha portato al potere. Ma un altro, più drastico changement era già in atto. Ora ci si può chiedere se e quanto di buono o di meno buono ci fosse nel regime di Ben Alì, se ha portato la nazione ad un buon livello di emancipazione (strade, consumi, esportazioni) e quanto sia stato utile per l’Occidente conservare rapporti acritici, lusinghieri e di comodo con un governo di cui a certi livelli non si poteva ignorare la durezza,  per così lungo tempo. Quanto è costata questa «emancipazione» alla popolazione in termini di libertà e dignità? Le domande sono tante: è stato un bene mettere il partito di rinascita islamista fuori legge? Non sarebbe stato meglio controllarlo dall’interno

assorbendone le istanze e le esigenze? L’Occidente non avrebbe dovuto essere più vicino alle scelte governative invece di marcare un assenteismo così opportunista? Questo improvviso risveglio della virtù, questo voltafaccia dei paesi di questa parte del Mediterraneo non è troppo apertamente ipocrita? In pochi giorni, anzi in poche ore Ben Alì da «amico insostituibile dell’Occidente» a «nemico della democrazia» è stato un passaggio difficile da digerire.

Il giorno che sono partito da Tataouine verso Tunisi, il 10 gennaio, sui giornali in lingua francese (Le Temps , La Presse, Tunis Hebdo) non c’era una sola notizia che riguardasse quello che stava succedendo nel paese da ormai due settimane. Lungo la strada per Tunisi io e mia moglie incontrando per la prima volta delle manifestazioni (una a Medenine pro-governativa e una a Mahrès antigoverno) ci siamo resi conto che il paese si stava muovendo verso una contrapposizione violenta. Dei morti di Douz, Kasserine, Sfax non sapevamo niente. A Tunisi il giorno 12, sono stato ricevuto tranquillamente negli uffici governativi da funzionari che davano per scontata la fine delle manifestazioni entro poche ore. «Anche nelle vostre periferie ci sono manifestazioni e scontri con la Polizia» mi rispondevano i pochi disposti a qualche commento. In serata mentre amici tunisini preparavano una cena fuori città in nostro onore, l’annuncio del coprifuoco ha colto tutti di sorpresa . Interrotti i preparativi conviviali non è stato facile riguadagnare l’albergo a La Goulette in tempo utile.

Il giorno dopo, il 13 gennaio, mentre ero a colloquio in Ambasciata, l’Avenue Burghiba si era riempita di autoblindo e al pomeriggio c’erano i soldati e i carrarmati agli angoli delle strade mentre il Presidente, esautorato il Capo di Stato Maggiore che aveva ordinato ai soldati di non aprire il fuoco sulla folla, cercava di varare un nuovo esecutivo. Ma 24 ore dopo era già in volo per Riad.

Certo la Rivoluzione non la si iscrive in calendario ma la sorpresa per la rapidità nella quale si è mossa la popolazione è stata incredibile. La si definisce una rivoluzione moderna, nel senso dell’ utilizzazione di ogni sistema elettronico di comunicazione. Certo gli hacker non hanno perso tempo ad occupare la Radio, la TV o il Palazzo; hanno attaccato immediatamente i siti ufficiali del regime bloccando la macchina dello Stato e la ciber-polizia.

Mentre scrivo (20 gennaio), questo più autentico changement non si è ancora depositato. Dobbiamo solo sperare nella Tunisia, nel popolo tunisino e nella sua capacità di dare una risposta ad un quesito tante volte sollevato parlando nello specifico del Maghreb e della possibilità di poter instaurare una democrazia là dove molte opinioni dichiarano la sua impossibilità. Si è accesa nel Maghreb una protesta laica; il motore della rivolta non è stato né periferico né intellettuale, ma semplicemente popolare, giovane e moderno. Un banco di prova per la democrazia in cui bisogna sperare e, se possibile, trovare il modo di aiutare.

 

G. Perotti

 

 

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