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 688 - IL DESERTO A CONFRONTO

 

Il deserto è un luogo di confronto dove si ha l’impressione di sfidare l’ignoto, dove il mistero di sabbia si frappone alle paure del mondo conosciuto. Pensieri volanti  su percorsi in cui il vento della fantasia  porta sopra  gli abissi più profondi per assaporare la vertigine e gustarla come vino inebriante.

Dentro e fuori, tra la realtà e l’immaginazione. Luogo del silenzio, fuori dalla città oltre i confini della civiltà. Spettro abitato da popoli abbandonati  vaganti solitari con passi leggeri e felpati  sulle dune. Uomini che  si sottraggono alla definizione  di una urbana umanità costretti loro malgrado ad una impenetrabilità non voluta… incompresa. Configurati come loschi predoni e “coupour de rout”, banditi, un tempo assalitori di carovane, oggi rapinatori di ingenui turisti. Gente altera che racchiude una sacralità valida solo per gli appartenenti alla tribù. Valori che non posso capire spingendoli in una descrizione morale, che non riesco catturare in un significato. Come un gioco di tensione dove le regole sono instaurare un senso attraverso il verbalizzare e la sua negazione. Come il deserto… che è il luogo che non sembra nessun luogo. Il vuoto, il nulla, la distanza che non offre nessun appiglio concreto. Si può ammirare e contemplare ma non si può possedere. Così la sua gente, prigioniera di spazi immensi, sembrano giocare tra le illusioni di un sogno. Comunicano in un codice a me sconosciuto che mi affascina come un bimbo che ascolta una fiaba. “Marrababik, iji fi l’bit schar” (benvenuto, vieni nella mia casa di pelo). Invito  che spinge la mia immaginazione gradualmente dentro la visionarietà del sogno. Parole che aprono il regno della fantasia, veicoli per  passaggi e attraversamenti di culture altre  annullano il senso della mia  formazione  e compongono nuovi ritrovamenti del sapere. Scomparsa di una forma e rivelazione di un’altra prima creduta nemica. L’acquisizione di una nuova realtà in un atto che riveste  sacralità e  mistero.

“Schuft el b’ell” (guarda la mandria di dromedari) come pascolano costrette dall’hoggal, impastoiate tra le dune  di “sbatt” mangiano voraci gli arbusti di spine roteandoli nella bocca per non pungersi. Gambe e ciglia  lunghe sono anche l’immagine della bellezza di una  donna usata nella elevazione poetica di questa gente. Forme incomprese che si rivelano ed acquistano il loro valore estetico e metaforico quando si manifesta il sintomo di contaminazione culturale.  Un passaggio da una condizione all’altra, come la scoperta di un mondo che viveva sopito nel profondo dell’anima schiacciato da certezze inalienabili  che trova un passaggio di sublimazione.  

Potenzialità di rinascita come se  gli occhi si riaprissero per un nuovo inizio, visione e comprensione  che mostra qualcosa che prima non si era scorto. Come se io, riflesso in uno specchio  scopro il cambiamento del proprio viso.

Deserto, luogo iniziatico, regno della sofferenza e della morte simbolica punto di passaggio, preludio della rinascita come per Mosè che guida la sua tribù oltre il Mar Rosso per formare una nuova civiltà del deserto alla continua  ricerca di una terra promessa. Quel deserto attraversato e vissuto dal popola ebraico, ostile per sete e per fame, proietta nelle menti disperate dalla desolazione desideri ed ideali  di rinascita e visione di “tutte le terre promesse”.

Raccogliamo insegnamenti per comprendere il valore delle esperienze più sofferte, in questo cammino sulla sabbia con la fatica di un passo dopo passo con i piedi appesantiti da un terreno in cui si affonda sino alle caviglie, cioè su una superficie sulla quale non vorremmo umanamente mai camminare, là si rivelano e ricevono le più importanti chiamate al servizio della umanità.   

A Mosè è toccato la liberazione di un popolo dalla schiavitù. A Gesù la riconciliazione fra il Creatore e la creatura. A Maometto il deserto e la sua natura hanno ispirato l’Islam e la Charya.  Tutto ciò fa riflettere e tutti i casi  presentano un denominatore comune: tutti e tre ottennero per cosi dire “l’investitura nel deserto”.

Perché tutto questo? Cosa rappresenta il deserto. Luogo disperato  ed assoluto, assente di cibo e acqua in equilibrio tra la vita e la morte, il deserto è il limite reale e simbolico.  Quando cade la pioggia o si verifica un’alluvione, il deserto si rinnova ed è tutto un pulsare di vita: erbe, fiori, piante ed insetti si moltiplicano. Poi, con il passare del tempo, l’acqua svanisce, l’erba  ingiallisce,  il  terreno  si  fa spoglio ed arido, la vita sembra dissolversi.

Il terreno si screpola, le zolle vengono sfaldate dal vento e si riducono in polvere, ecco la sabbia a testimone dell’ultima fatica della natura.

Il deserto è anche il simbolo della solitudine, dell’essere perso, dell’abbandono totale, della morte ma anche della speranza di ritrovare la pista che porta alla “terra promessa”.

 

Marino Zecchini

 

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