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  Cultura
 676 - Una porta verso l’Africa

 

Una porta verso l’Africa

 

Il flusso dei migranti che partono dall’Africa non si arresta mai, neanche in inverno. Giorni fa un gruppetto di pescatori di Mazara del Vallo ha messo in salvo dei disperati alla deriva, respinti da Malta, e la notizia non è neanche quasi apparsa sui giornali.

Vogliamo ricordare in questo clima di “buonismo” natalizio (che peraltro dura “l’espace d’un matin”) l’opera di Mimmo Paladino sorta a  Lampedusa in ricordo di chi non ci è mai arrivato.

Il primo scoglio avvistato dai barconi è l’ultimo promontorio di Lampedusa, una punta di roccia che nasconde un grande bunker della Seconda guerra mondiale. L’Italia finisce qui, dopo c’è solo il mare. Su questa sporgenza che guarda a sud è stato installato qualcosa per ricordare gli emigranti morti nelle traversate del Mediterraneo, uno per uno. Neri e bianchi, islamici e cattolici, vecchi e bambini.

La contrada, chiamata Cavallo Bianco, è attraversata da un sentiero polveroso che sale dal vecchio porto, scavalca una collina  e si getta nel mare turchese. In bilico fra sassi e arbusti appare la porta di Lampedusa, monumento alla memoria di tutti coloro che non sono mai riusciti a sbarcare su queste coste, annegati a qualche miglia da Malta o da Tripoli. La porta, dono  di Mimmo Paladino, disegnata e decorata dall’artista e realizzata in una speciale ceramica refrattaria, è alta cinque metri e larga tre; “una sorta di sacrario laico”, un faro simbolico rivolto verso i luoghi da dove partono i disperati, ma anche simbolo dell’accoglienza italiana.

Sono quasi tremila le vittime negli ultimi vent’anni ripescate fra le onde del Canale di Sicilia, secondo i dati dell’Osservatorio Fortress Europe. E altri cinquemila i dispersi. L’ultima strage  è stata il 7 giugno scorso. In centoquaranta non ce l’hanno fatta. Tutti partiti con un peschereccio fradicio da Al Zuwarah, al confine fra la Tunisia e la Libia. La porta di Lampedusa è orientata appunto in quella direzione, dove sorge il villaggio di Al Zuwarah.

I principali promotori di questo evento, che si è svolto quattro mesi fa con l’inaugurazione del monumento, sono due: l’associazione laica, milanese, Amani, fondata più di venti anni fa, tra gli altri dal missionario comboniano Renato Kizito Sesana, e riconosciuta dal Ministero degli Affari Esteri per le sue molteplici attività umanitarie in Etiopia, Zambia,  Kenya e Sudan; e Arnoldo Mosca Mondadori che da anni è impegnato instancabilmente nella realizzazione di progetti  umanitari e sociali soprattutto in Africa.

Il filosofo Massimo Cacciari ha ricordato in un suo scritto come l’uomo, da quando ha iniziato a navigare, abbia il terrore  di morire in mare, senza sepoltura, costringendo anche la sua anima, come il suo corpo, a vagare all’infinito senza pace.  Sulle soglie dell’Ade, Palinuro, il nocchiero di Enea caduto in mare, lamenta la sua mancanza di sepoltura “nunc me fluctus habet”. Anche Ulisse, prima di Virgilio, è rassicurato dall’indovino Tiresia  che la sua morte  avverrà fortunatamente lontano dal mare.

Ma gli emigranti arrivano ogni giorno con ogni tempo, sfidando la paura e la morte.  Ogni anno ventimila. Nelle acque del Mediterraneo si continua a morire, un strage senza testimoni e senza denunce sulla strada di una speranza di una vita migliore e soprattutto una strage senza sepoltura, un segno di riconosciuta dignità e di onore alle vittime di una emigrazione disperata, e anche un monito alla solidarietà e all’accoglienza.

Nel  suo libro Sale nero, pieno di storie agghiaccianti, la giornalista siciliana Valentina Loiero scrive che “ancora una volta la sorte peggiore tocca ai morti che

per ore e ore rimangono in quei sacchi verdi, sul molo, sotto tutte le intemperie”.

L’anno prossimo Lampedusa avrà anche un piccolo cimitero musulmano. Ce lo auguriamo.

 

Clelia Ginetti

 

 

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