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  Cultura
 673 - JOUMANA HADDAD A MANTOVA

 

Dall’ “io sono mia” all’”io sono io”. Versi dal Libano di un nuovo femminismo.

 “Verrà la morte e avrà i tuoi occhi”. In Libano si recitano le poesie di Cesare Pavese, si studiano a scuola. E' da una lettura scolastica  di Cesare Pavese  che Joumana Haddad  ha iniziato a desiderare di apprendere la nostra lingua, per leggere questo straordinario poeta nella sua lingua originale.

Ora, a 38 anni, non conosce solo l’italiano ma altre 6 lingue,  scrittrice e giornalista libanese, si occupa anche di traduzioni , sostenendo che “se tradurre è un po’ tradire[…] è il miglior tradimento che io conosca, il più nobile, il più generoso.  Non c’è atto più bello che andare verso l’altro e riceverlo, così l’individuo si moltiplica infinitamente senza mai ripetersi”.

Joumana Haddad ci ha invitati alla sua “cena segreta” (da un verso della poesia “Quando diventai un frutto”) una sera al Festivaletteratura di Mantova. In un chiostro silenzioso e raccolto, ha letto le sue poesie accompagnata, in un gioco continuo di rimandi e richiami in italiano e in arabo, da Nella Roveri e dal discreto violino di  Stefano Angiuli.

Ha parlato di amore, di desiderio (“è il desiderio che fa muovere le montagne, non la fede”), di passione.

Dei pensieri nascosti di una donna araba, della determinazione che si nasconde dietro la sua immagine di apparente fragilità (“Sono una donna. Credono che la mia libertà sia loro proprietà/ e io glielo lascio credere/e avvengo” ).

Parla sempre al singolare, Joumana Haddad, non pretende di rappresentare la molteplicità del genere femminile, o di esprimere un impegno sociale con il proprio lavoro, come spesso le è stato attribuito, addossandole il clichè della donna araba libera ed emancipata che parla a nome di un popolo di donne sottomesse alla volontà maschile, avvolte nel mistero del chador, del burka, dello hijab,  che anelano ad una affrancazione.

Non è così. Joumana Haddad scrive in prima persona, parlando di se stessa ed unicamente del suo desiderio, della sua passione, delle sue emozioni. Cerca se stessa attraverso la sua scrittura, affermando di scrivere “[...]con la mente, con il corpo, con le unghie” perché ritiene la scrittura sia un vero e proprio atto fisico, con il quale scava dentro di sé e  si ritrova alla fine “con le unghie sporche di terra, di sangue”.

Non si riconosce nelle generalizzazioni che il mondo occidentale fa sull’universo femminile arabo, anzi cerca di distruggere tale stereotipo dichiarando che le "donne arabe sono diverse non solo da un paese all’altro ma anche all’interno degli stessi confini".

Non solo. Va oltre, quando, nell’affermare una “androginia della scrittura”, palesa il proprio disappunto per il fatto che vengano pubblicate in tutto il mondo antologie di poetesse, di scrittrici e non esista invece una raccolta di (soli) uomini poeti, di (soli) uomini scrittori, come se l’identità di genere riguardasse unicamente le donne e fosse di per se stessa significante. Così, rispondendo ad una domanda del pubblico presente alla sua “cena segreta” mantovana, provocatoriamente propone una raccolta di “scrittrici bionde”…

Joumana Haddad  sceglie la lingua araba per parlare di trasgressione e sensualità, temi dominanti nelle sue opere, definendola una lingua “vergine”, non ancora “abituale” per questi argomenti (tabù inviolabili nel mondo islamico più rigoroso) quindi ancora da “scoprire”, conoscere, sperimentare. Non dimentichiamo che l’arabo è la lingua sacra del Corano, di cui lei s’impossessa per manipolarla a vantaggio della propria  libertà, sfruttando le infinite sfumature semantiche che suggeriscono senza confermare e dicono senza nominare, per raccontare la smisurata ricchezza dell’universo femminile.

Per Joumana Haddad, nata e cresciuta in un paese in guerra, la scrittura, suo “strumento di vita”,  è anche una via d’uscita dalla guerra, un antidoto alla violenza, perché “conoscendo meglio noi stessi, possiamo conoscere di più l’altro. Dobbiamo concepire noi stessi come due rive di un fiume che guardano l’una all’altra e pensare  sempre che l’altra è la più bella. Non servono ponti ma gallerie sotterranee perché solo scavando in profondità è possibile trovare punti di contatto”. Difficile non condividere. E persino immorale.

 

Elena Benaglia

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