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  Economia
 670 - LA SCONFITTA DELLA GLOBALIZZAZIONE

 

Non sembrano più suscitare alcun clamore le voci di allarme sulla fine non tanto della globalizzazione in se come fenomero, ma di una globalizzazione regolata e regolare che porti  benefici a cascata per tutti e benessere condiviso. La favola era apparsa tale fin dall’inizio ma molti avevano continuato a cantare le lodi del fenomero planetario di commercio libero e globale.

Sembra fallito, a Ginevra, il disperato tentativo di rianimare la trattativa commerciale globale, avviata a Doha nel 2001 e rimasta bloccata in sette anni di impasse. La crisi  ha un impatto, prima ancora che economico, psicologico: si esaurisce l’attitudine a vedere, nell’apertura dei mercati, prima i vantaggi che gli svantaggi e la globalizzazione non appare più irreversibile.

D’altra parte, è già successo: un secolo fa, quando si spense la prima ondata di mondializzazione dell’economia.

Il punto specifico su cui sembrano naufragare i negoziati è la protezione dei piccoli contadini indiani (e cinesi). Nuova Delhi, con il sostegno di Pechino, reclama la possibilità di aumentare i propri dazi agricoli, nel caso di un aumento anomalo delle importazioni, che togliesse troppo spazio alle centinaia di milioni (in Cina i piccoli contadini sono 800 milioni) di produttori nazionali. La bozza di accordo stabiliva la soglia di anomalia ad un aumento del 40% delle importazioni. L’India contropropone il 10%, una soglia troppo bassa, secondo gli americani, in grado di innescare troppo facilmente una chiusura protezionistica.

L’imposizione di mercati liberi ha spesso creato gravi crisi in paesi dalla debole economia, le recenti disfatte del modello esportato da FMI e WB non sembrano pero’ aver insegnato nulla ai big dell’economia mondiale, che pure in patria e cioé nei paesi occidentali non storcono il naso davanti a misure dal sapore vagamente, o accentuatamente , protezionistico, spingendo invece per un liberalismo sfrenato proprio li dove il terreno é più fragile.

Cina e India non digeriscono che gli Usa, dove oggi i sussidi ai produttori agricoli, valgono 7 miliardi di dollari, si riservino la possibilità di arrivare fino a raddoppiarli. Gli agricoltori europei reclamano una protezione più decisa dei propri marchi geografici, per proteggere la propria produzione di qualità dalle incursioni del vino americano o del prosciutto di Parma cinese.

Il collasso dell’idea stessa di libero mercato è un segno dei tempi. La globalizzazione ha già subito, in questi mesi, una serie di duri colpi. La crisi dei subprime ha rivelato la fragilità di mercati, in mano ad una finanza internazionale senza regole. La crisi del cibo ha mostrato quanto, a livello nazionale, possa essere pericoloso affidarsi alle forniture dall’estero per il proprio fabbisogno alimentare. L’impatto della corsa del petrolio sul prezzo dei trasporti sta mettendo in dubbio la razionalità delle scelte di delocalizzazione industriale. Ora, la battuta d’arresto riguarda la liberalizzazione del commercio che, della globalizzazione, è stata in questi anni la struttura portante e il maggior successo.

Gli economisti, comunque, non ritengono che questo stop possa colpire il livello del commercio mondiale. Troppo radicato, ormai, il decentramento globale delle catene di fornitori (la cosiddetta «fabbrica mondiale») e troppo radicate, anche, le abitudini e le attese di produttori e consumatori per pensare ad una svolta. Senza l’ombrello del Doha Round, tuttavia, il commercio mondiale punterebbe più sulla creazione di blocchi regionali, come l' Unione europea, il Nafta americano e un eventuale aggregazione asiatica, frammentando il processo di globalizzazione: questo non garantirebbe regole uguali per tutti e, alla lunga, potrebbe pesare sullo sviluppo mondiale.

 

Manuelita Scigliano

 

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