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 716 - Lettera di un invidioso ai giovani tunisini

 

Sono invidioso. Lo confesso. Invidioso di non appartenere alla giovane società tunisina che ha saputo ribellarsi pacificamente ai soprusi di un regime corrotto che da tempo la soggiogava. Invidioso della loro “rivoluzione dei gelsomini”.

Oggi mi ritrovo dalla parte dei giovani tunisini da me distanti più per età che non per ideali. Spesso in questi anni ci siamo incontrati per dire a bassa voce, perché solo così era possibile, attraverso il mondo dell’arte, le nostre speranze in un mondo migliore.

Ribellarsi al potere ingiusto e corrotto è un dovere. Di qui la mia invidia per voi, giovani tunisini che avete saputo ribellarvi anche grazie alle nuove tecnologie che hanno aperto le vie del web. Avete saputo utilizzare al meglio gli strumenti di comunicazione che la modernità offre e che il mondo occidentale per ragioni di mercato vi ha venduto.

Da noi, sto parlando di quell’altra sponda del Mediterraneo che va sotto il nome di Italia, si è vecchi e i giovani (non tutti per fortuna) passano il loro tempo a leggere in internet il proprio oroscopo sperando di incontrare, un domani, uno di quelli che contano, meglio se  premier, o giù di lì, che li sistemi per il futuro.

Più che un senso di vergogna provo un senso di colpa. Non mi lascia in pace la domanda: in cosa ho (abbiamo) sbagliato nel costruire una società come quella in cui ci troviamo nostro malgrado?

Eppure per anni si è ripetuto che la vita privata non è mai solo un affare privato. Che comunque e sempre le nostre azioni ricadono sulla collettività. Questo vale soprattutto per chi riveste cariche con funzioni pubbliche. Non accettare questo principio significa istigare a delinquere. E in Italia stiamo vivendo questa fase storica.

Mi sento di appartenere ad un popolo antico verso il declino morale. Dico questo nella consapevolezza che non solo sia grave il comportamento dissoluto di un capopopolo, ma più grave è che il popolo non lo biasimi e lo condivida.

Non è possibile che in una società prevalga l’interesse esclusivo del singolo (anche di quelli che poi trovano sempre il modo di farsi passare “di buon cuore” con le elargizioni ad accondiscendenti cortigiane) che se ne infischia degli altri.

Ci sono voluti secoli per fare un passo avanti verso una giustizia che non preveda la sopraffazione del più forte sul più debole.

Se, oggi, essere dalla parte dei più poveri, della giustizia, della legalità vuole dire essere comunista, allora io non posso che essere comunista. Uso questa definizione perché l’Italia credo sia  l’unica nazione dove la classe politica al potere e che si regge con parlamentari acquistati in saldo, fa riferimento al regime comunista per mantenere il consenso della gente. 

Mi scuso se parlo troppo apertamente e forse in modo incauto. Ma mi sono stancato di muovermi tra sottigliezze linguistiche. Sta scritto: la vostra parola sia sì, sì, no, no.

Persino la chiesa si vende per un piatto di lenticchie che, oggigiorno da noi significa: l’otto per mille, l’equiparazione della scuola confessionale e privata a quella pubblica, l’esenzione dell’ICI sulle proprietà immobiliari. Una chiesa tutta intenta a curare i suoi affari non certamente dell’anima.

Una chiesa (parlo dei vertici della struttura ecclesiale cristiana- cattolica) che da duemila anni si mantiene predicando sulla pelle dei poveri, dove i monsignori difendono l’indifendibile con sofismi indegni per chi dovrebbe annunciare la verità.

Una chiesa che costringe ad essere eretici se si vuole vivere una qualche religiosità.

Ecco perché se oggi mi vergogno d’essere italiano non è perché io rinneghi le mie origini. Ma è perché non accetto di divenire un insulso suddito spettatore. Non voglio condividere i disvalori di una classe politica, soprattutto se di governo, una classe politica non solo in mano ai faccendieri ma essa stessa intrallazzatrice.

Richiedere che la legge sia per davvero uguale per tutti non è un atto eversivo. È un segno di civiltà in una democrazia compiuta.

Basta con l’affermare a sproposito di essere perseguitato. La persecuzione si ha quando si è dei giusti, non dei malfattori. Per restare nella realtà dei due paesi Italia e Tunisia, perseguitati erano i mazziniani dell’800 e non i più recenti rifugiati politici che, come chiunque altro di noi, avrebbe dovuto rispondere davanti alla legge italiana.

Queste mie parole d’indignazione, che molti definiranno moralistiche e inconcludenti, non vogliono essere altro che una giustificazione, dichiarata nel titolo, della mia invidia nei confronti dei giovani tunisini.

Che Dio (non so quale) li assista lungo il tormentato cammino di rinnovamento verso una società più giusta e libera. A noi non resta che sperare nel suo aiuto per salvarci dal declino morale nel quale sguazziamo.

 

Delfino Maria Rosso

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