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In Tunisia
NON DICO DI VOLERE il ritorno di Ben Ali solo per rispetto nei confronti di chi ha perso la vita per la Rivoluzione”, mi dice un amico in un sabato sera all’aperto che ci sentiamo di meritare. Veniamo da una settimana di coprifuoco, a causa dei disordini accesi dall’incursione dei salafiti in occasione della mostra “Printemps des Arts”, nell’elegante Palazzo El Edbellia alla Marsa, uno dei quartieri più esclusivi di Tunisi. I barbus, come vengono chiamati qui i salafiti dalla barba lunga, sono su tutte le prime pagine dei giornali che, con titoloni a caratteri cubitali, si chiedono dove stia andando la Tunisia o, tout court, ne sanciscono l’islamizzazione. Si predice un futuro all’iraniana sorseggiando una birra fresca all’ex JFK, locale del centro che pullula di artisti, rasta con le magliette di Che Guevara e personaggi cool uniti dall’impegno politico, o da un qualcosa che ci assomiglia. Bere dell’alcool è “haram” per un musulmano, ossia proibito. Parlare di politica pure. Lo era anche sotto Ben Ali. Ma stiamo facendo entrambe le cose, e nel farlo siamo la prova vivente che il fantasma del radicalismo islamico è ancora lontano da noi. Nel tram che prendo ogni giorno c’è qualche barbus che salmodia il Corano alla massa di “infedeli”, ci sono bandiere nere che sventolano, e le moschee, come al-Zaytouna, hanno ripreso vigore. Non si deve dimenticare, però, che pure i credenti sono stati vittime, e spesso le preferite, del regime monopartitico di Bourguiba prima e di Ben Ali poi. “Con Ben Ali, se la polizia ti scopriva ad accendere la luce per due notti di fila, nell’ora della Fajr (la prima preghiera, in genere verso le 5 del mattino), ti pedinava e iniziava a darti noie” mi racconta Imane Ben Mohamed, membro dell’Assemblea Costituente col partito islamico Ennahda – che ha registrato una vittoria schiacciante alle elezioni dello scorso 23 ottobre. La vittoria di questo partito, e la parallela rimonta dei salafiti, spaventa i laici e indigna i giovani che hanno “fatto la rivoluzione”. Ma la vittoria di un partito confessionale è un rischio che si deve correre, se si vuole agire in un contesto davvero democratico. E tre considerazioni ridimensionano il peso di questo rischio. Innanzitutto, in un Paese vergine a qualsiasi genuina esperienza partitica e legato al valore musulmano dell’unità della umma (la comunità dei fedeli musulmani), non deve stupire se alla prima esperienza alle urne degli elettori venga accordata la preferenza all’unica fonte di riconoscimento per moltissimi tunisini, ovvero l’Islam, troppe volte oppresso e soffocato da 50 anni di regime “moderno” e forzatamente laico. Il partito di cui si parla, Ennahda, erede del Movimento della Tendenza Islamista (Mti), ha ormai assimilato l’essenza della democrazia e le sue regole procedurali. A dimostrarlo, è la rinuncia a dare rilievo costituzionale alla Shari’a. “Se l’avessimo fatto, avremmo creato una divisione all’interno del Paese tra credenti e apostati. Dovevamo tenere conto anche delle altre componenti della società creando inclusione, non esclusione”, dice Imane con una semplicità disarmante. In secondo luogo, va presa in considerazione la disponibilità dei salafiti a sedersi al tavolo delle trattative. Infatti, se all’inizio avevano boicottato le elezioni per l’Assemblea Costituente perché non riconoscevano la legittimità di un governo eletto dal popolo, a partire dal 28 maggio Hezb Ettahrir è riconosciuto come partito politico. Infine non bisogna dimenticare che, il reciproco bilanciamento tra il partito del Presidente della Repubblica Moncef Marzouki, il Congrès pour la République (Cpr), e l’Ettakatol (Forum démocratique pour le travail et les libertés) di Mustapha Ben Jaafar, gioca a favore dell’equilibrio democratico. Questi due poli di attrazione politica condividono col partito vincente le funzioni di governo, dando vita a quella che tutti i giornali chiamano Troika. Tuttavia, quando si parla della Troika nei bar di Tunisi, non è raro riscontrare un’espressione di biasimo. Perché, al di là delle questioni ideologiche o religiose, le ragioni per cui i giovani, e poi l’intera popolazione tunisina, sono scesi in piazza – dignità sociale, lavoro e democrazia come garante di essi – sono peggiorate rispetto a quel fatidico 17 dicembre 2010. Per ora gli effetti economici e sociali sono l’aumento dei prezzi, il rallentamento dell’economia e la persistente disoccupazione, perlopiù tra le fasce giovanili. Le riforme strutturali di cui il Paese ha bisogno non accennano a concretizzarsi e dubbi circolano sulla capacità performante del governo in tal senso. “Cosa ne sanno loro, che hanno passato un sacco di anni in carcere o all’estero, dei problemi della Tunisia?” mi dice Hamza, un laureato disoccupato, come tanti. L’anno scorso c’era meno turismo ma le piazze erano costantemente gremite di gente, sfidando anche le infernali temperature estive. Ogni occasione era buona per manifestare, per dire la propria e a voce alta. Quello che a un osservatore occidentale poteva sembrare niente più che un fastidioso blocco della routine cittadina, era invece l’entusiasmo di una libertà conquistata. I venditori all’interno della medina non si lamentavano del fatto che non avrebbero venduto. Quest’anno sì, e pare che lo sport nazionale sia diventato criticare il potere e l’incapacità dei decision makers. “Ma aspettiamo, appena passano il segno li mandiamo a casa. Abbiamo cacciato Ben Ali, possiamo rifarlo con loro”, dice Souad mentre costeggiamo il filo spinato che circonda quello che durante la rivoluzione era chiamato il Ministero del Terrorismo (ovvero il Ministero dell’Interno). E questo la Troika lo sa bene: pondera, cerca il dialogo e quando non lo fa – come nel caso dei contratti per le assunzioni pubbliche – si scontra con un’opposizione forte (prima capeggiata dal Sindacato Generale dei Lavoratori Tunisini, Ugtt) che la fa tornare sul sentiero del negoziato. Molti hanno interpretato la rivoluzione come perdita di qualsiasi inibizione, e spesso si assiste alla fiera degli eccessi: dai giovani che fumano marijuana in nome della rivoluzione agli ex detenuti che molte volte, spacciandosi per salafiti, commettono atti di violenza. Questi episodi possono essere ricondotti a una sorta di analfabetismo democratico che spiega la disillusione e lo scoraggiamento dei più. La Tunisia esce da mezzo secolo di regime paternalistico e repressivo, lacerata da uno sviluppo economico mal distribuito e senza un adeguato corredo istituzionale e organizzativo. La democratizzazione non sarà un processo fulmineo come quello rivoluzionario. I partiti devono imparare le regole del gioco e i tunisini devono interiorizzare i lunghi tempi della democrazia. Ma d’altronde un proverbio arabo dice “voi avete gli orologi, noi il tempo”. Valeria Resta
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